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Pallone Torino FC al Filadelfia
Pallone Torino FC al Filadelfia

Vi invitiamo a leggere (la pubblicazione è in formato ridotto) questo racconto breve scritto da Marco Trucchi, autore torinese e tifoso granata.

"Sa che il Torino vincerà 2 a 1, con un rigore parato e ribattuto in rete da un esordiente al novantesimo.
Da lì comincia una corsa contro il tempo tra sogno, fede granata e destino: un racconto dove calcio e vita si intrecciano, e dove un gol cambia tutto.

Il tono è sportivo ma con un’anima onirica e surreale: la passione per il Toro, il mito del derby, la magia del “novantesimo”.
Un testo di fantasia".

Il Novantesimo

- Versione ridotta –

Il bambino nasce nel 1972. Troppo piccolo per ricordare l’ultimo scudetto. Ne avrebbe visto le foto, i titoli ingialliti, le facce di Pulici e Graziani, una bandiera sbiadita e sgualcita. Ne avrebbe ascoltati i racconti fantasiosi della zia e della nonna. Ma la memoria vera, quella che scotta, non c’era. Gli dissero che il Toro aveva vinto nel ’76. Lui sognava. 

Cresceva negli anni Settanta e Ottanta come crescono i ragazzi nelle città operaie: campi spelacchiati, porte senza reti. Scarpe sporche d’olio, o peggio. Madri alla finestra. La domenica si ascoltava la radio, le voci che correvano gracchianti sui gol come passi sulla ghiaia.

Era del Torino perché non poteva essere altrimenti. Come una religione. Non sapeva da cosa nascesse questa passione viscerale, sin dai primi ricordi era così. La fede si era rafforzata coi racconti degli uomini grandi. Capitan Mazzola che si rimbocca le maniche e il quarto d’ora granata che inizia. La nonna che aveva sentito il tonfo secco, piombato su Torino quel maledetto 4 maggio del ’49. E poi i fatti recenti, vissuti anche se a volte un po’ a distanza. Il papà nello staff, un sogno diventato realtà. Il derby dei tre minuti, da zero a due a tre a due, Dossena, Bonesso, Torrisi. Disse qualcuno: sembrava che il Comunale tremasse. Lui chiuse gli occhi e provò a vederlo. Era marzo 1983, a 11 anni. Gli bastò una radiocronaca per capire che certe cose succedono davvero solo una volta.

Poi c’era l’altro racconto, quello che ti resta nel cuore: novembre ’84, derby a casa loro, a 12 anni. Platini, poi Francini, uno a uno. I cancelli aperti nell’ultimo quarto d’ora e si va tutti dentro, regole di sicurezza lasche, suo fratello entra fiero con la sua sciarpa granata. E poi Serena che sale in cielo all’ultimo minuto e ci mette la fronte. Quel colpo di testa che sembra il suono di un portone che si chiude e mezza città, quella amica, che esulta.

Il bambino ascoltava, immaginava. Un disegno nell’ora di educazione artistica: l’attimo in cui la palla gonfia la rete, i granata che esultano, gli avversari si disperano, sullo sfondo un tabellone con un improbabile risultato di un derby: dieci a zero per noi.

Sognava di essere lui a segnare al novantesimo. Non solo per gloria. Per quel silenzio corto prima dell’urlo, per l’abbraccio dei compagni che pesa come una coperta in inverno.

Da grande avrebbe fatto l’ingegnere. Avrebbe imparato a progettare, misurare e calcolare. Ma allora, da bambino, gli bastava il sogno di diventare un calciatore del Torino e far esplodere lo stadio al novantesimo.


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